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Il viaggio alternativo

Avventura a Macondo

Lunedì, 07 Ottobre 2019

Polverosa e coloratissima al tempo stesso, Aracataca è un pueblito fermo nel tempo, che solo per qualche decina di chilometri non si affaccia sul mar dei Caraibi.
Paesino natale di Gabriel Garcia Marquez e, come molti sostengono, luogo che ha ispirato la “Macondo” di Cent’anni di Solitudine, è una meta tutt’altro che turistica.
Non foss’altro perché arrivarci è piuttosto complicato. Probabilmente anche per questo, attirati dall’avventura, decidiamo che il nostro viaggio alla scoperta della Colombia non può non comprendere una tappa ad Aracataca. Partiamo dalla bella Santa Marta, altro pueblito decisamente bello e un po’ più turistico, che dista meno di cento chilometri.
Nelle guide non se ne parla un gran che ma, spulciando tra i blog di Gabo addicted, troviamo che dovremmo poterci spostare con un autobus, impiegandoci un paio d’ore circa. 
E qui, sul viaggio, apro una lunga parentesi che non potrei tralasciare.
Alloggiavamo in quei giorni in un ostello delizioso, dove tutto (ma in Colombia questa è la regola) era dipinto con immagini e colori sgargianti. Alla reception ci spiegano che gli autobus partono dalla zona del mercato, e così ci avviamo con una buona dose di entusiasmo. Secondo le informazioni raccolte, il biglietto dovrebbe costare sui 10mila pesos.
Arrivati al mercato naturalmente è un disastro: una festosa baraonda tra cui non capiamo assolutamente nulla, autobus che vanno e vengono senza una chiara destinazione, bancarelle di qualunque cosa possibile immaginabile.
Acchiappiamo un “buttadentro” (strana figura presente in molti mezzi pubblici columbiani), e chiediamo disinvoltamente se per caso quell’autobus passi per Aracataca. «Cataca?» risponde il tizio, che questo è il modo in cui la chiamano lì. Dice di no, poi confabula con l’autista, e ci dice di sì, e che fan 15mila pesos. Un po’ troppo, ma il tale dice che è giorno di festa e i mezzi costano di più. Rimaniamo un po’ perplessi, anche perché vedendo la destinazione qualche dubbio ci era venuto. Ma siamo degli incoscienti e saliamo. 
Insomma, per farla breve, quell’autobus, come sospettavamo, andava da tutt’altra parte.
La certezza arriva dopo un’oretta circa, quando il buttadentro scende dal pullman nel bel mezzo di quella che aveva tutto l’aspetto di un’autostrada: lo seguiamo con lo sguardo, sempre più interdetti, mentre raggiunge altri autobus e va a parlare con altri autisti. La prima contrattazione non va in porto, la seconda sì: solo in quel momento capiamo di essere stati “venduti” per circa diecimila pesos, il reale costo del biglietto, all’autobus “giusto”. La differenza, alla faccia nostra e del giorno di festa, se la incassano il buttadentro e l’autista.
Ci consoliamo comunque, pensando di essere sopravvissuti per tutto il viaggio fino a quel momento, ed anche al tragitto sull’autobus alquanto malandato. Oltretutto, il secondo mezzo è quasi avveniristico: ha addirittura l’aria condizionata e la presa per caricare il telefono, a cui non siamo così abituati nemmeno in Italia. 
Dopo un’altra oretta di piacevole viaggio, finalmente scendiamo.
Cataca supera le nostre aspettative fin dalla fermata: come il bus si allontana, si presenta davanti a noi un magnifico murales, a tutta parete, con il viso di Gabo ed un disegno della sua casa natale. Alle nostre spalle l’allegro paesino, che iniziamo a percorrere alla ricerca della casa museo. Di turisti neanche l’ombra, tanto più che è domenica, e in Colombia i musei sono tutti chiusi. Decidiamo di non chiedere informazioni: alla fine se non è una strada sarà per forza l’altra. Ad accoglierci, appena varcate le porte della “cittadina”, c’è un ponte su un fiumiciattolo dove tutti i ragazzini del paese si stanno facendo allegramente il bagno. 
Ci guardano tutti con un po’ di stupore, confermandoci che sì, noi europei per loro siamo bestie strane.  Andiamo avanti, e ci avventuriamo tra un groviglio di stradine, tutte tappezzate di altri magnifici murales: qui una citazione da Cent’anni di Solitudine, lì un’altra da L’amore ai tempi del colera. Nel mezzo di una piazzetta si erge la statua dedicata a Remedios la bella, un po’ donna e un po’ fata, che dal libro sembra salire al cielo circondata da farfalle. 
Camminando a caso per non sappiamo quanto arriviamo quindi al museo, che ovviamente è chiuso. Condividiamo il dispiacere con una famigliola, che come noi sperava di poter entrare. A rimanere a bocca asciutta siamo addirittura cinque o sei: un numero incredibilmente alto per gli standard locali. Tanto alto che quando stavamo per andarcene arriva il direttore del museo in persona, il professor Jimenez, che era stato avvertito della nostra presenza. «Se siete arrivati fin qui non posso lasciarvi alla porta» ci dice, allargando un sorriso. Cogliamo al volo l’occasione di una visita guidata solo per noi, lasciandoci guidare dalle parole appassionate del professore. All’uscita ci fermiamo a pranzo con lui e con un ragazzo di nome Manuel, che si offre di farci da guida. Il paesello l’avevamo già visto, ma lo rivediamo con lui, che ci riaccompagna alla fermata dell’autobus.
E niente, la Colombia è anche questo: autobus scalcagnati, turisti barattati e direttori di museo che aprono apposta per te. 

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Silvia Quaranta

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    Avventura a Macondo

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