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Il viaggio alternativo

Tuol Sleng, l’amaro del viaggio alternativo

Lunedì, 21 Ottobre 2019

Prima liceo, poi prigione, e infine oggi museo di un genocidio che sfiorò i due milioni di morti. Siamo a Phnom Penh, la capitale della Cambogia, e loro sono le cinque palazzine di Tuol Sleng, il famigerato S-21 degli Khmer rossi. Quando le vedo, mi viene da pensare che, purtroppo, sembravano un carcere già prima della conversione, e che continueranno a sembrare tali finché il museo resisterà: come se il loro destino fosse già scritto nelle pietre, e nel progetto di un architetto sciagurato. Quello che mi fa più rabbia, mentre le visito, è proprio il pensiero che le stanze di tortura siano state ricavate (per motivi funzionali, ma penso anche come sfregio alla cultura e alla trasmissione del sapere), in un luogo consacrato alla vita, alla gioventù, all’innocenza: la scelta del liceo come un controcanto vigliacco e malato, degno preludio all’abominio che poi vi si è compiuto.
Più che le stanze con i letti e le catene, più che le tracce di tortura su soffitti e pavimenti, più che i monumenti, più che gli sguardi delle vittime e dei carcerieri impresse nelle foto in bianco e nero, più che le illustrazioni sugli interrogatori, più che i chioschi con i due sopravvissuti e le loro biografie alla fine del percorso, mi colpiscono le pareti bianche che pochi anni prima ospitavano gli alunni, il cartello col disegno di un uomo che sorride coperto da una croce rossa in segno di divieto, e il ragazzo (un agente in borghese) che mi chiede chi sto aspettando nel cortile, mentre mi fermo un attimo per aspettare il resto della comitiva. Il tuffo nelle ferite del genocidio cambogiano prosegue alla periferia della città, nei campi di sterminio (Killing Fields) dove i prigionieri condannati venivano trasportati e giustiziati. Al centro del prato, oggi, c’è un memoriale col tetto a forma di pagoda. Il sentiero intorno all’ossario disegna una via crucis con un cartello per ogni stazione. La fine del viaggio cambogiano termina con l’amarezza. 

Alessandro Macciò

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    Tuol Sleng, l’amaro del viaggio alternativo

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