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Campioni si diventa

Io vorrei che...

Giovedì, 12 Settembre 2019

Mi soffermo spesso ad osservare le dinamiche relazionali e i diversi contesti sociali, storici e affettivi in cui si sviluppano situazioni vissute con persone con cui sono venuto a confronto nella mia vita. 
Ciò che mi affascina davvero, è provare a comprendere cosa faccia muovere ognuno di noi nel momento in cui vi siano da affrontare scelte, e mettere poi in campo le azioni conseguenti. Mi capita spesso di chiedermi cosa sarebbe accaduto se, in una determinata circostanza, avessi avuto un altro comportamento, altre reazioni, e soprattutto quali effetti avrebbero provocato negli altri. 
Questa sfumatura attira fortemente la mia attenzione perché, ai nostri occhi, appare che le scelte e le azioni precise che compie una persona e il risultato che ne deriva, abbiano tra di loro una relazione diretta. e un rapporto di conseguenzialità strettamente legato. 
Ma è davvero così? Vi è mai capitato di avere una buona intenzione, sulla quale avete investito e vi siete preparati per raggiungere il risultato che vi siete prefissati? E ci siete sempre riusciti?
Mi spiego meglio: il fatto di avere un’ottima intenzione, anche da un punto di vista etico e sociale, è sufficiente per raggiungere un ottimo risultato?
Dal 2014, insieme ai miei coach, ho iniziato a ripercorrere via via alcune tappe della mia vita sportiva, personale, da educatore e da imprenditore, da quando cominciavo a rotolare e divertirmi sui campi erbosi fin quando, da professionista, mi era richiesto di garantire un risultato. 
Da quando avevo quattordici anni ho avuto l’onore di essere tra i prescelti per rappresentare il nostro Paese, prima a livello giovanile, nel mondo del rugby. In quegli anni ero stato investito dai tecnici federali del ruolo di capitano. Il ruolo di capitano è molto importante e sentito nel mondo dello sport, e nel rugby ha un significato che va al di la della fascia al braccio, e della possibilità di interpellare l’arbitro durante la partita. 
Il capitano è un fratello maggiore che ti ascolta, ti rincuora e ti redarguisce quando ce n’è bisogno. Il capitano è un leader, dentro e fuori dal campo. 
Pur non conoscendo, allora, l’entità di questa frase, mi era ben chiaro che il ruolo di capitano conservasse l’onore di esserne ritenuto degno, e l’onere di mostrarsi integro e coerente agli occhi dei propri compagni di squadra. Ruolo che, secondo la mia visione d’allora, collimava con lo spirito con cui vivevo il rugby: una continua ricerca del divertimento, nella pratica di uno sport che richiedeva sacrificio e preparazione. 
Quando ci radunavamo in collegiale con le rappresentative nazionali giovanili, riprendevo ogni volta con orgoglio quel ruolo, e cercavo di rappresentarlo degnamente.
Volevo che i miei compagni pensassero di comportarsi bene, che mi ascoltassero quando dicevo loro qualcosa che riguardasse il rugby, ma soprattutto ciò che riguardava i comportamenti e l’osservanza delle regole di convivenza e rispetto nel gruppo. 
Volevo che tutto fosse perfetto, perchè pensavo che la perfezione avrebbe influito sull’attitudine che avremmo espresso in campo, negli incontri con le rappresentative degli altri Paesi.
Insomma, desideravo che i miei compagni di squadra la pensassero come me, e fossero d’accordo con la mia visione, se di visione si può parlare, e seppur ammettendo che lo fossero, pretendevo che vivessero quell’esperienza come lo volevo io. Follia!
Le mie intenzioni erano onorevoli, volevo guidare i miei compagni, la squadra alla vittoria! Mi piaceva pensare che saremmo riusciti a fare quello che in molti prima di noi non erano riusciti a fare con la maglia d’Italia.
Volevo essere leader di un gruppo di ragazzi che con qualità tecniche ed esuberanza caratteriale potessero raggiungere traguardi importanti. 
Gli effetti che si producevano, non erano sempre quelli sperati. Talvolta le “ramanzine” non sortivano l’effetto desiderato e, anzi, accadeva che alcune situazioni, seppur in modo goliardico, si aggravassero.
Insomma, mi sono reso conto che la maniera in cui mi esprimevo non era quella che mi avrebbe portato a raggiungere i miei più alti principi, e non mi avrebbe dato facilmente l’occasione di vincere assieme. 
Difficile da comprendere, a soli quattordici anni.
In realtà, io stimavo i miei compagni di squadra, mi fidavo delle loro abilità in campo, e mi piaceva sentire che, dopotutto, volevamo essere una squadra. 
Basti pensare che ancora oggi quando ci vediamo, sebbene capiti raramente, non manca occasione per ritirar fuori qualche aneddoto scritto tra le pagine delle memorie di ognuno.
La differenza stava nel volere che gli altri vivessero il momento così come io volevo che loro lo vivessero, e questo non era possibile. Quella via non era praticabile, e anzi quella maniera diversa di contribuire ha fatto la differenza nelle relazioni, e nei risultati che siamo comunque riusciti a raggiungere insieme.
Le mie migliori intenzioni non erano sempre supportate dalle scelte e dalle azioni che io impiegavo per riuscirci. Uno stile di leadership o di comando che, nonostante i rispettabili scopi, non era sempre compatibile con il contesto che si presentava di volta in volta.
Un piccolo spunto di riflessione che mi piace riportare alla mente, per osservare e considerare quello che sta accadendo, e quello che vorrei accadesse. Mi piace pensare che siamo noi gli artefici del nostro futuro.

Mauro Bergamasco

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